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Riassunto: Primo dopoguerra in Italia

Riassunto:

Nel dopoguerra l’Italia, che pure era uscita vincitrice dal conflitto, dovette affrontare numerose difficoltà economiche: la riconversione produttiva, la disoccupazione, la crisi finanziaria. Il peggioramento della situazione economica provocò una pesante inflazione e un inasprimento dei conflitti sociali. Andava inoltre aumentando il rancore dei reduci di guerra, spesso disoccupati e disillusi per le mancate riforme promesse durante il conflitto, prima tra tutte la riforma agraria. Si vennero così diffondendo forti tendenze autoritaria e antidemocratiche in primo luogo negli organi fondamentali dello Stato (burocrazia, esercito, polizia, magistratura), abituati nel periodo bellico a esercitare un ruolo di primaria importanza e di autonomia nei confronti del Parlamento.
In questo difficile contesto il Partito liberale, dominatore della storia italiana dell’Ottocento, andava perdendo peso politico, mentre nel 1919 nasceva a opera di Luigi Sturzo il Partito popolare, con un programma basato sulla riforma agraria, sulle autonomia locali, sull’interclassicismo. La fondazione del nuovo partito segnava il definitivo abbandono del non expedit e l’accettazione da parte dei cattolici delle libertà politiche e civili alla base di uno Stato laico.
Gravi dissidi si manifestarono nel maggiore partito di massa dell’epoca, il Partito socialista, al cui interno si scontravano la linea riformista, guidata da Turati, e quella massimalista, guidata da Menotti Serrati, contraria a qualsiasi forma di compromesso con lo Stato borghese. Una terza linea, proposta da Bordiga, Gramsci e Togliatti, puntava alla creazione di un partito rivoluzionario sul modello di quello realizzato da Lenin in Russia. In occasione del congresso del Partito socialista a Livorno questo gruppo operò una scissione, dando vita al Partito comunista (21 gennaio 1921), che aderì alla Terza Internazionale fondata nel 1919 e ispirata alla dottrina leninista.
Nel clima di rivolta sociale che caratterizzò il dopoguerra, l’ex socialista Benito Mussolini fondò un nuovo movimento (23 marzo 1919), i Fasci di combattimento, nel cui programma richieste di stampo progressista si affiancavano a rivendicazioni di tipo reazionario e anarcoide, espresse con un esasperato attivismo, spesso sconfinante in atti di violenza (saccheggio e incendio della sede dell’Avanti! a Milano, aprile 1919).
Un altro fattore di instabilità nel dopoguerra era legato alla delusione per la vittoria mutilata, in seguito al mancato rispetto delle clausole firmate dall’Italia e dall’Inghilterra nel patto di Londra. La questione finì per riguardare la città dalmata di Fiume, che l’Italia intendeva annettere contro il volere di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Gabriele D’Annunzio, con un gruppo di nazionalisti, marciò su Fiume, dove instaurò un governo provvisorio (settembre 1919), proclamando l’annessione della città all’Italia.
Le elezioni politiche del 1919 furono le prime tenutesi con il sistema proporzionale e con il suffragio universale maschile. Il sistema proporzionale premiò i socialisti e i cattolici, organizzati in moderni partiti politici di massa, mentre evidenziò la crisi dello schieramento liberale. Nel Paese nel 1919-1920 (biennio rosso) si aprì una serie di scioperi e di sommosse, fomentati anche dall’esperienza rivoluzionaria russa. Nelle aree più industrializzate del Nord gli operai intrapresero l’occupazione e l’autogestione delle fabbriche. Il governo Giolitti, per evitare il pericolo di una nuova guerra civile, si oppose alla richiesta degli industriali di reprimere con la forza l’occupazione e firmò un accordo con i sindacati. Ciò, tuttavia, non pose fine alle agitazioni sociali nel Paese e, in particolare, nelle campagne. Giolitti ottenne invece un successo nella risoluzione della complessa questione di Fiume: nel novembre 1920 l’Italia firmò con la Iugoslavia il trattato di Rapallo, nel quale Fiume veniva dichiarata città libera, mentre D’Annunzio e il suo esercito vennero allontanati dalla città.
Per poter contare su una solida maggioranza, Giolitti indisse nuove elezioni (maggio 1921), in vista delle quali strinse un’alleanza con nazionalisti e fascisti, detta blocco nazionale. Gli esiti della consultazione non premiarono però i giolittiani, ma segnarono l’avanzata dei fascisti, che entrarono in Parlamento con ben 35 deputati: tra essi lo stesso Mussolini. Nel corso del Terzo congresso nazionale fascista, tenutosi a Roma nel novembre 1921, veniva fondato il Partito nazionale fascista (Pnf). In questa prima fasi il nuovo partito raccolse i consensi soprattutto dei ceti medi e della piccola borghesia, fino allora privi di una soddisfacente rappresentanza politica, che da un lato si sentivano trascurati dallo Stato e dall’altro temevano l’eversione rossa.
Dopo la patente di rispettabilità ottenuta entrando in Parlamento, il fascismo si sentì autorizzato a inasprire le violenze antisocialiste attraverso le squadre d’azione. Si trattava di bande armate, finalizzate a farsi giustizia da sé con l’intimidazione e i soprusi (spedizioni punitive ai danni delle sedi del movimento contadino e del Partito socialista).
Le forze fasciste trovavano valido sostegno economico e morale non soltanto presso i ceti medi, ma anche presso gli esponenti della classe politica liberale, nonché presso gli organi periferici dello Stato (prefetture e questure) e dell’esercito. La mancanza di interventi della forza pubblica contro lo squadrismo e la conseguente impressione di debolezza dello Stato democratico finirono per persuadere gli stessi fascisti, nonché una parte dell’opinione pubblica, che essi erano i veri e soli difensori della stabilità politica e dell’ordine.
A quel punto Mussolini si persuase che fosse arrivato il momento di prendere il potere. Egli perciò ordinò ai suoi seguaci di intraprendere la marcia su Roma (26 ottobre 1922). Il presidente del Consiglio Facta proclamò lo stato d’assedio, per impedire l’ingresso dei fascisti nella città, ma il re Vittorio Emanuele III, compiendo un vero e proprio colpo di Stato, rifiutò di firmerò e invitò Mussolini a recarsi a Roma per formare un nuovo governo (28-30 ottobre).
La notizia della creazione di un nuovo ministero guidato da Mussolini fu ben accolta dalla maggioranza del Parlamento, ad eccezione dei partiti di sinistra. Approfittando del favore di numerosi ambienti politici, Mussolini diede vita a un governo di coalizione (fascisti, liberali, popolari, socialdemocratici, alti gradi delle forze armate) e solo formalmente garantì una certa libertà alla stampa e ai partiti, appoggiando invece le azioni terroristiche e le spedizioni punitive degli squadristi. Per limitare il potere del Parlamento istituì il Gran consiglio del fascismo (11 gennaio 1923), che divenne l’organo effettivo di governo. Mussolini, inoltre, istituì un esercito di partito, posto sotto la sua diretta autorità, e trasformò le squadre d’azione in Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvns). Per assicurarsi la maggioranza parlamentare fece votare una nuova legge elettorale (legge Acerbo, novembre 1923), destinata a favorire il partito che avesse ottenuto più voti; indisse quindi nuove elezioni con la sicurezza della vittoria (aprile 1924). E infatti la lista nazionale, capeggiata da Mussolini, ottenne la maggioranza, anche grazie a intimidazioni e brogli elettorali, che suscitarono la protesta dell’opposizione. Giacomo Matteotti, che si era levato in Parlamento contro le illegalità elettorali, venne assassinato da sicari fascisti (10 giugno 1924). Sull’onda dell’indignazione il governo si sciolse, mentre l’opposizione in segno di protesta abbandonò la Camera (secessione dell’Aventino). La mancanza di accordo tra le forze democratiche e gli appoggi di cui godeva il fascismo finirono però per rafforzare ancor più Mussolini, che con un colpo di Stato instaurò la dittatura, trasformando il partito in regime (discorso alla Camera, 3 gennaio 1925).
Il fascismo assunse i caratteri di un regime forte e accentrato, conservatore, marcatamente a favore della grande borghesia. Il ministro delle Finanze Alberto De Stefani adottò una politica economica ispirata ai principi del liberismo, attraverso l’abolizione di numerose tasse e la stipulazione di trattati commerciali con gli altri Paesi europei, e una politica interna basata sulla riduzione del disavanzo pubblico, sullo sviluppo dell’industria e dell’agricoltura e sulla diminuzione dei salari. Al fine di ostacolare il Partito popolare, sempre più ostile al fascismo, e di guadagnare il consenso delle masse cattoliche, Mussolini perseguì una politica di riavvicinamento alla Chiesa. Imbrigliò inoltre le frange più estremiste del partito. Fece insomma tutto quello che era possibile per avere il solido appoggio della grande borghesia, prima di procedere al totale svuotamento delle istituzione liberali.

Una vittoria a caro prezzo
Tra tutti i Paesi vincitori, l’Italia è quello che più risente dei problemi economici e sociali del dopoguerra. Nonostante i miglioramenti del primo Novecento, il nostro Paese è ancora economicamente e politicamente molto più fragile delle altre potenze occidentali: la Grande guerra si rivela una scossa, che fa esplodere le contraddizioni e le divisioni. Per i nazionalisti che hanno caldeggiato l’intervento le conquiste territoriali sono troppo esigue, e non fanno diventare l’Italia un grande Paese imperialista; i socialisti neutralisti criticano a loro volta il governo per la crisi economica seguita a una guerra che i proletari non avrebbero voluto; i capitalisti, soprattutto agrari, temono che il malcontento diffuso abbia uno sbocco rivoluzionario; gli ex combattenti infine, vogliono maggiore considerazione e sono pronti ad applicare nella vita civile quella violenza che sono stati costretti a imparare ad esercitare al fronte.

Origini e caratteri del fascismo
Il prodotto più originale di questa difficile situazione sono i Fasci di combattimento. Fondati dall’ex socialista Benito Mussolini, esso sono l’espressione delle idee di fonde dei combattimenti: il loro programma sociale è generico e confuso, ma l’atteggiamento proposto riflette la mentalità del reduce della guerra, incentrata sul culto dell’azione violenta e risolutiva. I ricchi borghesi credono di poter strumentalizzare le violenze antisocialiste dei fascisti per mettere fine ai fermenti dei rivoluzionari (pronti a fare come in Russia), ma all’inizio degli anni Venti il movimento si dimostra incontrollabile, al punto che invece di lasciarsi assorbire nel generico conservatorismo attacca l’ordine costituito prendendo il potere.

Le origini del regime autoritario
Impadronitosi del governo, Mussolini inizia a scardinare i fondamentali dello Stato liberale. Le violenze si fanno sempre più frequenti e rimangono impunite, e in questo clima si svolgono le elezioni, indette apposta per dare al partito fascista una solida maggioranza parlamentare. L’eliminazione fisica del socialista Giacomo Matteotti, il grande accusatore delle irregolarità elettorali, apre la strada alla fine di ogni libertà politica e alla distruzione di ogni forza politica autonoma. Nell’Italia degli anni Venti nasce un nuovo modello di Stato, destinato di essere imitato altrove.

Situazione generale
La crisi economica seguita alle difficoltà di riconversione industriale determina una lunga fase di disordini e di scioperi contro il carovita (1919-1920, biennio rosso). Le proteste sono particolarmente intense nelle città del Nord, dove maggiore è la presenza delle industrie e dove cresce il peso dei partiti di massa, il Partito socialista e il Partito popolare. Alla fine della guerra i confini dell’Italia risultano ampliati, ma non comprendono tutti i territori che erano stati promessi con il patto di Londra, come ad esempio la Dalmazia. La delusione dei reduci e dell’opinione pubblica per la vittoria mutilata accentuerà la crisi che colpirà l’Italia nel dopoguerra.
In questa situazione di grande instabilità politica, l’ex socialista Benito Mussolini fonda un nuovo movimento, il fascismo, che si pone l’obbiettivo di riportare l’ordine nel Paese, bloccando gli scioperi degli operai e dei braccianti attraverso un uso spregiudicato della violenza (squadrismo). L’appoggio dei ceti possidenti e l’indifferenza del governo nei confronti del moltiplicarsi degli episodi di violenza fascista spianerà la strada per la presa del potere da parte di Mussolini.
Le rivendicazioni dei reduci riguardano soprattutto la riforma agraria, promessa dai governi italiani prima della fine della guerra, ma mai attuata.
Le proteste investono tutto il Paese e coinvolgono anche il Sud, dove si verificano scioperi e occupazioni delle terre padronali.



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